Di Ivano Gallino – Presidente Associazione Italiana Travel e Mobility Manager
Riflessioni per Mobility Manager, Responsabili HR e Amministratori locali e Deputati della Repubblica Italiana.
C’è un momento dell’anno in cui i Mobility Manager e le risorse umane tirano le somme. Si guardano i dati dei Piani Spostamento Casa-Lavoro (PSCL), si analizzano le percentuali di modal split e, troppo spesso, ci si scontra con una realtà frustrante. Nonostante gli sforzi, le campagne di comunicazione e la buona volontà, il numero di auto nei parcheggi aziendali non diminuisce; il traffico urbano aumenta, ma non come ci si aspettava, e quella “transizione” tanto evocata sembra un miraggio.
Perché i PSCL non danno i risultati sperati? La risposta non va cercata in un foglio di calcolo Excel, ma in un errore di prospettiva fondamentale: abbiamo trattato la mobilità come un problema tecnico ed economico, dimenticando che è, prima di tutto, una questione sociale e umana.
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ToggleIl paradosso italiano: “Vorrei ma non posso…”
Partiamo dai dati, perché i numeri non mentono ma vanno interpretati. Viviamo in quello che possiamo definire il “Paradosso della Mobilità Italiana”. Se chiediamo alle persone cosa desiderano, la risposta è unanime: il 30% degli italiani vuole ridurre l’uso dell’auto, c’è un desiderio netto di più bicicletta (+34,6% di propensione futura) e più trasporto pubblico.
Eppure, la realtà è una doccia fredda: il tasso di motorizzazione ha toccato il record di 701 veicoli ogni 1000 abitanti e il traffico nelle grandi città come Milano e Roma è cresciuto a doppia cifra rispetto al 2019. Siamo di fronte a una dissonanza cognitiva di massa o a un fallimento sistemico? La risposta è la seconda. Il cittadino – che è anche il vostro dipendente – è intrappolato in un sistema che lo costringe a muoversi in direzione opposta ai propri desideri. Senza alternative affidabili, l’auto privata resta un obbligo, non una scelta.
La grande assente: la dimensione sociale
Qui arriviamo al cuore del problema dei nostri piani di mobilità. Per anni, la narrazione della sostenibilità si è retta su due gambe: quella Ambientale (ridurre la CO2) e quella Economica (risparmiare denaro). Ma queste leve, da sole, non bastano più a scardinare abitudini radicate.
Abbiamo ignorato il terzo pilastro: la Dimensione Sociale. La vera sostenibilità non esiste se non è inclusiva. Continuare a proporre soluzioni tecnocratiche o incentivi economici marginali non funziona se non attiviamo leve motivazionali più profonde, legate all’appartenenza e alla solidarietà. La letteratura ci dice chiaramente che gli appelli basati esclusivamente sul risparmio o sulla paura del cambiamento climatico hanno un’efficacia limitata se non sono accompagnati da valori pro-sociali.
Il Cortocircuito del DM 179/2021: chiedere tutto, non dare nulla
C’è poi un aspetto politico e normativo, sul quale ci rivolgiamo direttamente ai legislatori. Il Decreto Interministeriale n. 179 del 2021, all’articolo 8, era chiaro: premialità. Si promettevano incentivi e riconoscimenti alle aziende virtuose che avessero implementato PSCL efficaci.
Oggi, quella promessa appare come una cambiale scaduta. Le aziende investono risorse, nominano Mobility Manager, raccolgono e inviano moli di dati alla Pubblica Amministrazione. Ma cosa ricevono in cambio? Il silenzio.
L’articolo 8 è rimasto sostanzialmente lettera morta. Questo meccanismo a senso unico – in cui lo Stato chiede, controlla e valuta, ma non restituisce valore – genera un pericoloso distacco. Le aziende vivono il PSCL come l’ennesimo adempimento burocratico, un “compitino” da svolgere per evitare sanzioni, svuotandolo di ogni spinta innovativa. Senza un ritorno concreto – che sia fiscale, reputazionale o di servizi dedicati – la motivazione crolla. È il classico esempio di un gap tra l’intenzione politica (alta) e la pratica dell’implementazione (nulla).
La via d’uscita: solidarietà e inclusione come motori del cambiamento
Come ne usciamo? Cambiando narrazione e strategia. Dobbiamo smettere di vendere la mobilità sostenibile solo come un dovere civico o un risparmio, e iniziare a proporla come un atto di solidarietà e costruzione di comunità.
Immaginiamo il car pooling non come un modo per dividere la benzina, ma come uno strumento di inclusione. Un collega che offre un passaggio non sta solo “ottimizzando un veicolo”: sta riducendo l’isolamento, sta magari aiutando una persona con una disabilità temporanea a tornare al lavoro, sta creando capitale sociale.
Le leve motivazionali più potenti sono quelle altruistiche: “sentirsi utili agli altri gratifica” più del risparmio di pochi euro. Se i Mobility Manager e gli HR iniziassero a disegnare politiche di mobilità basate sul prendersi cura delle persone – specialmente le più vulnerabili – vedremmo un’adesione diversa. Perché Sostenibilità = Inclusione non è solo uno slogan, è l’unica equazione che funziona.
Un appello alla responsabilità condivisa
Ma le aziende non possono fare tutto da sole. I dati sulla “povertà dei trasporti” sono allarmanti: la sharing mobility sta scomparendo dai centri minori e dalle periferie a basso reddito, diventando un lusso per pochi privilegiati nelle ZTL delle metropoli. Se il trasporto pubblico non regge e lo sharing si ritira, il PSCL aziendale diventa carta straccia.
Ai decisori politici chiediamo quindi di sbloccare la situazione. Servono politiche pubbliche coraggiose che trasformino il desiderio di mobilità sostenibile in un diritto accessibile a tutti. Serve attuare davvero quella premialità promessa, per trasformare le aziende da esecutori burocratici a partner attivi del cambiamento.
La mobilità del futuro non si costruisce con i divieti o con la burocrazia, ma restituendo valore alle persone e ai territori. È tempo di passare dalla logica della “transazione” a quella della “relazione”. Solo così i nostri piani di mobilità smetteranno di essere documenti in un cassetto e diventeranno la mappa per una società più giusta.
Ivano Gallino – Presidente Associazione Italiana Travel e Mobility Manager










