Psicologia dell’emergenza in trasferta: quando la salute mentale è parte del piano di viaggio

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Come affrontare eventi critici in trasferta: il ruolo della psicologia dell’emergenza tra supporto emotivo, prevenzione e resilienza organizzativa

Viaggiare per lavoro può essere entusiasmante, produttivo, talvolta persino piacevole. Ma c’è un aspetto che si tende a ignorare finché non diventa urgente: cosa succede alla nostra mente quando una trasferta diventa improvvisamente una situazione di crisi? Un incidente, un attacco terroristico, una calamità naturale, un sequestro, un’emergenza sanitaria: eventi rari ma possibili, che possono avere un impatto devastante non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente. E qui entra in gioco una figura ancora poco conosciuta nel mondo del business travel, ma sempre più cruciale: lo psicologo dell’emergenza.

Valutazione e intervento: capire cosa sta succedendo nella testa di chi ha appena vissuto un trauma

Non è facile rimanere lucidi dopo aver assistito a un evento critico, soprattutto se ti trovi lontano da casa, in un Paese straniero, magari senza parlare bene la lingua locale. In quelle prime ore, spesso confuse, lo psicologo dell’emergenza ha un compito fondamentale: osservare, valutare, e agire in modo da contenere lo shock. Il suo lavoro non è fare diagnosi cliniche o percorsi terapeutici lunghi, ma intercettare segnali di disagio — che possono andare dal mutismo improvviso alla difficoltà a dormire o respirare — e fornire un primo intervento che aiuti la persona a “ritornare al presente”, a trovare un punto di appoggio emotivo in mezzo al caos. Non è magia: è scienza, è tecnica, ed è anche esperienza sul campo.

Per un’azienda, avere un protocollo che preveda il contatto immediato con uno psicologo dell’emergenza non è solo un gesto di cura verso il dipendente, ma un’azione concreta di contenimento del danno. Perché una mente traumatizzata non lavora, non decide, non torna operativa. Ma scopriamo meglio questo tassello che incrementa esponenzialmente l’efficacia di un piano di Travel Risk Management.

Supporto psicologico: dare un nome alla paura e riprendere fiato

Dopo la fase di contenimento, serve qualcosa in più. È qui che lo psicologo entra in una relazione più profonda con il lavoratore colpito, offrendo supporto emotivo, ma anche strumenti pratici per affrontare il trauma. Non si parla di anni di terapia, ma di tecniche per gestire l’ansia, strategie per affrontare i flashback, esercizi per evitare il blocco emotivo. E, soprattutto, un ascolto senza giudizio. Sentirsi dire “è normale sentirsi così”, in quel momento, può fare la differenza tra l’affondare e il riprendere fiato.

Questo è un passaggio delicato, anche per chi organizza i viaggi: non tutti i lavoratori sono pronti a raccontare quello che hanno vissuto, specialmente se si trovano in un ruolo dirigenziale o sentono la pressione delle aspettative aziendali. Serve tempo, serve attenzione, e serve uno spazio sicuro. Un buon travel risk manager dovrebbe sempre garantire questo spazio, anche se invisibile nella checklist.

Formazione e sensibilizzazione: prepararsi prima che accada

Quando si parla di emergenze in trasferta, la vera differenza non la fa solo il piano di evacuazione o il numero dell’ambasciata, ma la prontezza mentale con cui si affronta il momento critico. È per questo che la formazione psicologica preventiva sta diventando sempre più centrale nei programmi di travel risk management.

Un lavoratore preparato sa riconoscere i segnali dello stress, gestire la propria risposta emotiva, mantenere lucidità anche sotto pressione. Lo psicologo dell’emergenza, in questi percorsi, insegna strategie pratiche di autocontrollo, tecniche di grounding e consapevolezza emotiva, utili non solo in trasferta, ma anche nella vita quotidiana.

Per l’azienda, offrire questa formazione significa trasmettere una cultura della prevenzione, responsabilizzare i dipendenti e creare un clima di fiducia. E nel momento in cui accade l’imprevisto, chi ha ricevuto anche solo una breve formazione è più pronto, più stabile, più utile a sé stesso e agli altri. Perché la resilienza non si improvvisa: si costruisce prima, con gli strumenti giusti.

Collaborazione con altri professionisti: il puzzle si completa insieme

Un’emergenza non si gestisce da soli. Serve una squadra ben coordinata, in cui medici, soccorritori, psicologi, manager aziendali e consulenti lavorino fianco a fianco. Lo psicologo dell’emergenza è uno dei tasselli fondamentali di questo puzzle: dialoga con gli altri operatori, partecipa ai briefing, interviene dove serve. Questo approccio integrato permette di non lasciare scoperti punti critici, come ad esempio la gestione emotiva del rientro o la comunicazione con i familiari.

Ecco perché è importante che anche chi si occupa di logistica, HR o travel management conosca e sappia attivare questa figura professionale. La rete funziona solo se tutti i nodi sono collegati.

Supporto alla comunità: non finisce tutto quando il volo di rientro atterra

Quando una trasferta si trasforma in un’esperienza traumatica, non è sufficiente riportare il dipendente a casa, magari con un volo anticipato e una stretta di mano all’aeroporto. Il trauma non si spegne con il check-out in hotel o il rientro in ufficio il lunedì mattina. Anzi, è spesso proprio dopo che comincia la parte più difficile: affrontare il ritorno alla “normalità” con addosso un bagaglio emotivo che pesa più della valigia.

Qui lo psicologo dell’emergenza diventa un facilitatore del reintegro, ma anche un riferimento per tutto l’ambiente professionale che circonda il lavoratore colpito. Perché il trauma non è mai isolato. Si irradia, crea silenzi, innesca imbarazzi tra colleghi, genera distanza. I compagni di team spesso non sanno se chiedere, se tacere, se fingere che nulla sia accaduto. La dirigenza si interroga su come gestire il rientro, evitando di “riaprire la ferita”, ma al tempo stesso garantendo continuità operativa. È in questo contesto che la comunità aziendale ha bisogno di un supporto guidato, strutturato, umano.

Lo psicologo dell’emergenza lavora per ricostruire il tessuto relazionale, attraverso incontri mirati, colloqui individuali e azioni concrete di comunicazione interna. Favorisce momenti di condivisione (anche informali) in cui si può parlare dell’accaduto, normalizzare le reazioni emotive, trasformare la fragilità in consapevolezza collettiva. Aiuta il team a ridefinire gli equilibri, a reincludere il collega traumatizzato senza etichettarlo né isolarlo, e accompagna anche il management nel comunicare in modo empatico ma professionale.

Ma non si parla solo di singoli: in molti casi, soprattutto se l’evento ha coinvolto più persone, è l’intero ufficio, la sede locale o persino la filiera internazionale ad aver bisogno di elaborazione. Una squadra che ha vissuto insieme un terremoto in Asia o un attentato a Nairobi non può semplicemente “tornare operativa” come se nulla fosse. Ha bisogno di riconoscersi, di raccontarsi, di rielaborare l’evento non solo a livello individuale ma come gruppo professionale e umano.

In questo senso, la psicologia dell’emergenza lavora anche come motore di resilienza organizzativa: interviene per trasformare un evento traumatico in un’occasione di apprendimento, di crescita interna, di ridefinizione dei valori aziendali. Aiuta a rafforzare il senso di appartenenza, a ricucire le fratture, a costruire una cultura della cura che non sia solo retorica nelle newsletter, ma vissuta concretamente nel quotidiano.

Interventi di gruppo: l’effetto catartico del raccontarsi

Un altro strumento potente, e spesso trascurato, è il lavoro con i gruppi. Dopo un evento traumatico che ha coinvolto più persone — un team in trasferta, una delegazione, un gruppo di colleghi in missione — può essere utile organizzare un momento di confronto guidato. Non si tratta di terapia di gruppo, ma di uno spazio protetto in cui condividere ciò che si è vissuto, rompere il silenzio, capire di non essere soli. Questa condivisione ha un valore enorme, perché crea connessione, trasforma il trauma individuale in una storia collettiva e aiuta a scaricare tensioni che, altrimenti, si incancrenirebbero nel tempo.

Gestione dello stress da traumatizzazione vicaria: chi aiuta chi aiuta?

Infine, una domanda che raramente ci si pone: e chi si prende cura di chi è sempre pronto a intervenire? I travel risk manager, i team HR, i coordinatori delle emergenze aziendali sono spesso i primi a dover rispondere a una crisi. E spesso lo fanno con grande efficienza. Ma anche loro sono esposti, anche loro assorbono stress.

Questo fenomeno si chiama traumatizzazione vicaria e può avere effetti molto seri: affaticamento emotivo, cinismo, distacco, senso di impotenza. Lo psicologo dell’emergenza interviene anche in questi casi, offrendo spazi di decompressione, consulenze individuali e strategie per evitare il burnout di chi è sempre “sul pezzo”.

Photo credit: Andrea Piacquadio

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