Duty free: cosa può (davvero) essere rimborsato?

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Dai profumi al panino pre-volo, quali acquisti in duty free possono essere davvero giustificati in nota spese? Una guida per travel manager tra buon senso, fiscalità e policy aziendale

In trasferta tutto diventa più sfocato: il tempo, il denaro, i limiti. E l’aeroporto è il regno di questo grigio amministrativo. Una bottiglietta d’acqua a sei euro, una cuffia nuova acquistata in extremis, un pasto tra due coincidenze: quanto di tutto ciò può davvero rientrare tra le spese aziendali? Ancora più spinoso è il caso degli acquisti al duty free, dove si mescolano tentazioni personali e necessità reali. Il risultato? Scontrini che arrivano in nota spese e mettono in crisi chi deve approvare, tagliare, giustificare. Lavorare senza una linea guida chiara è rischioso: si creano tensioni con i dipendenti e si espone l’azienda a possibili contestazioni fiscali. Per questo è utile fermarsi a riflettere su cosa può essere rimborsato, cosa no e come regolarsi quando ci si trova davanti a uno scontrino di Chanel n°5.

Spesso si pensa al travel manager come al “guardiano del budget”. Ma il suo ruolo è molto più ampio: è un mediatore tra esigenze aziendali e benessere del dipendente in viaggio. L’aeroporto è uno dei luoghi dove questo equilibrio si mette alla prova. Qui il manager può davvero fare la differenza, promuovendo strumenti pratici (come app di gestione spese con avvisi smart), preparando micro-guide aeroportuali, o organizzando brevi momenti formativi con i reparti coinvolti. Il punto non è “vietare tutto”, ma educare a spendere con intelligenza, riconoscendo le situazioni-limite e offrendo alternative chiare. E quando la nota spese arriva, deve poter essere letta con tranquillità: niente sorprese, niente ambiguità, nessun bisogno di decifrare un acquisto in zona duty free alle 6:30 del mattino.

Cosa si può rimborsare davvero dal duty free?

Non è il luogo dell’acquisto che fa la differenza, ma la sua finalità legata alla trasferta lavorativa. Se un dipendente compra un adattatore per il portatile dimenticato, un caricatore universale o una tastiera bluetooth danneggiata, si tratta di spese coerenti con l’attività professionale e quindi rimborsabili, anche se acquistate nello scalo. Stesso discorso vale per un pasto all’aeroporto se il volo è in ritardo o se il viaggio prevede lunghi tempi di attesa tra una coincidenza e l’altra. Ma quando ci troviamo davanti a una bottiglia di whisky, un profumo o una penna Montblanc, la domanda è lecita: è davvero spesa funzionale al lavoro? Nella maggior parte dei casi, no. E attenzione: più è personale l’acquisto, più diventa difficile da giustificare, soprattutto in sede fiscale.

Documentazione necessaria per il rimborso

Gli acquisti fatti in aeroporto, specialmente al duty free, hanno una peculiarità rischiosa: spesso sono documentati da scontrini poco chiari, non parlanti, e raramente intestati. Alcuni shop emettono ricevute semplificate, senza il nome dell’acquirente o la descrizione dettagliata del prodotto, e questo può rendere non rimborsabile la spesa anche se legittima. In altri casi, il problema nasce a livello contabile: senza un documento completo, non si può procedere né al rimborso, né al recupero IVA. Per evitare disguidi, il travel manager dovrebbe consigliare ai viaggiatori di richiedere sempre fatture o scontrini completi, possibilmente con intestazione aziendale se l’acquisto è previsto dai massimali della policy. Un piccolo gesto che può evitare grandi problemi.

Perché serve una policy chiara per il duty free

Molti fraintendimenti nascono non da malafede, ma da mancanza di indicazioni precise. In assenza di una travel policy dettagliata, ogni dipendente si regola “a buon senso” — ma il buon senso è soggettivo. Alcuni penseranno che tutto ciò che avviene durante il viaggio sia rimborsabile, altri si limiteranno a spese minime. Una buona policy aziendale dovrebbe specificare in modo pratico: cosa si può acquistare in aeroporto, quando, con che limiti di spesa, e con quale documentazione. Meglio ancora se accompagnata da esempi concreti: “acquisto di pasti consentito solo oltre le due ore di sosta”; “acquisti elettronici ammessi solo se funzionali al lavoro”; “prodotti personali (es. profumi, cosmetici, alcolici) non rimborsabili in nessun caso”. Questo aiuta a evitare discussioni e a dare serenità a chi viaggia.

Le contestazioni nascono quando il flusso informativo si spezza. Il dipendente inserisce in nota spese un acquisto fatto in fretta, magari durante una coincidenza lunga e noiosa, e l’ufficio lo rigetta perché “non coerente”. Ma chi ha ragione? Dipende da quanto era stata chiara la comunicazione prima della partenza. È lì che si fa la differenza. Una buona prassi è inviare prima del viaggio una checklist aggiornata sulle spese consentite, magari integrata in una app per la nota spese digitale o allegata all’itinerario. In questo modo si anticipano incomprensioni. In alternativa, si può creare una breve guida digitale con esempi tipo: “panino sì, bottiglia di vino no”, “cavo USB sì, cuffie wireless per uso personale no”. Prevenire le contestazioni significa risparmiare tempo, evitare malumori e rafforzare la fiducia interna.

Il punto di vista fiscale

La normativa italiana è piuttosto chiara: una spesa può essere rimborsata se è “necessaria e inerente” all’attività lavorativa. E l’onere della prova è a carico dell’azienda, soprattutto in caso di verifica dell’Agenzia delle Entrate. Questo significa che se un revisore trova una nota spese con voci ambigue, sarà la società a dover dimostrare la congruità. Un esempio classico? Un dipendente che compra un tablet in aeroporto “perché il suo si è rotto”. Senza una comunicazione al reparto IT, senza fattura intestata all’azienda e senza giustificazione del contesto, quella spesa potrebbe venire considerata personale. Per questo è fondamentale tenere traccia dei motivi dell’acquisto, scriverli nella nota spese o allegare una breve giustificazione, e scegliere sempre documenti validi fiscalmente. Meglio una riga in più che un problema col fisco.

Photo credit: Alex P

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