L’intervento di Dario Fabbri, analista geopolitico, al BizTravel Forum 2025 descrive un momento in cui l’Occidente interpreta la fase internazionale attraverso categorie che riflettono più la propria fragilità che la realtà dei rapporti di forza globali. Secondo Fabbri, la percezione di vivere un’epoca eccezionalmente pericolosa deriva dalla condizione demografica, economica e culturale dell’Europa: una regione benestante, anziana e soprattutto periferica rispetto ai grandi motori geopolitici del XXI secolo. Ciò che per l’Occidente appare come una rottura drammatica dell’ordine mondiale è, in realtà, l’effetto di un processo più lineare e prevedibile: la preparazione degli Stati Uniti allo scontro strategico con la Cina.
Sommario
ToggleIl centro del sistema internazionale e la periferia europea
Fabbri sostiene che la sensazione di trovarsi in un contesto senza precedenti sia una specificità europea. In altre aree del mondo, dalla Turchia al Medio Oriente, le tensioni internazionali vengono percepite come una componente fisiologica della storia, non come un’eccezione. L’Europa, al contrario, osserva il presente attraverso il filtro della sua lunga stabilità postbellica e dell’idea – interiorizzata nel corso di decenni – di una storia giunta a compimento.
Questo scarto percettivo si riflette, secondo Fabbri, anche nel modo in cui l’Occidente interpreta i fenomeni macroeconomici e geopolitici: come shock inattesi e destabilizzanti, mentre per altre potenze rappresentano passaggi ordinari nella competizione per il primato internazionale.
La lunga preparazione degli Stati Uniti allo scontro con la Cina
Il punto centrale della lettura di Fabbri riguarda la dinamica strutturale che orienta il sistema internazionale: la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Washington, spiega l’analista, ha avviato da tempo un processo di riequilibrio industriale, militare e tecnologico funzionale a un conflitto che per ora si manifesta nelle forme della competizione commerciale, diplomatica e informativa. Questa rivalità modifica la postura globale americana e riduce lo spazio di manovra dei vecchi alleati europei.
Nel suo intervento, Fabbri sottolinea come le misure introdotte dagli Stati Uniti – dai dazi nei confronti di partner e competitor, alla richiesta di riallineamento strategico, fino alle pressioni sul sistema industriale – non vadano interpretate come politiche economiche, ma come parte di un’antica logica imperiale. Washington avrebbe imboccato la strada che molte potenze hanno seguito prima di un confronto diretto: imporre ai propri alleati un contributo finanziario per sostenere lo sforzo militare e tecnologico necessario. «I dazi non rappresentano uno strumento di politica economica — spiega Fabbri — ma un tributum, un prelievo forzato di liquidità nelle casse federali destinato a finanziare la competizione con la Cina». Il modello richiamato è quello romano, o ottomano, o britannico: una tassa straordinaria imposta alle province o ai territori alleati prima di una guerra.
Ma uno dei passaggi più densi di Fabbri riguarda la critica alla narrazione della “fine della storia”, concetto reso celebre nei primi anni Novanta e divenuto architrave ideale dell’ordine liberale. Fabbri interpreta tale narrazione come un classico strumento di potere: ogni impero, nel momento di massimo slancio, proclama la stabilità definitiva del proprio dominio. Il fatto insolito non è l’annuncio di Washington, ma la convinzione con cui le società europee, in quanto province dell’impero americano, vi hanno creduto.
Secondo Fabbri, la tendenza attuale degli Stati Uniti a trattare con crescente freddezza gli alleati europei deriva proprio dalla necessità di smontare quella stessa narrazione. Di fronte alla preparazione a un confronto con la Cina, Washington considera l’Europa un partner militarmente irrilevante e troppo anziano per contribuire a un conflitto ad alta intensità. Da qui il linguaggio più diretto, le richieste pressanti di riallineamento, il ricorso a tariffe e sanzioni.
La reazione dell’Europa, abituata a leggere la politica internazionale come una questione economico-commerciale, appare quindi inadatta alla natura del nuovo scenario. «Gli americani – afferma Fabbri – non valutano più l’Europa come un elemento necessario del loro dispositivo strategico. Ci invitano a tornare alla realtà e a smettere di credere che il mondo voglia diventare ciò che eravamo convinti rappresentasse il destino naturale della storia».
Un Occidente colto di sorpresa?
Il quadro delineato da Fabbri mette in evidenza un divario culturale. L’Occidente continua a interpretare la globalizzazione come un processo neutrale e universale, mentre le potenze emergenti — a partire dalla Cina — la considerano uno spazio di competizione per imporre regole alternative. L’Europa, con la sua demografia stagnante e la sua ridotta propensione all’impiego della forza, fatica a comprendere un contesto in cui potenza militare, capacità industriale e controllo tecnologico tornano a essere parametri decisivi.
La tendenza americana a riformulare il rapporto con gli alleati, anche attraverso strumenti coercitivi, riflette quindi un più ampio processo di ridefinizione del sistema internazionale. Il passaggio dalla competizione commerciale alla pressione strategica è già in corso: i dazi ne rappresentano solo l’indicatore più visibile.
Business Travel e Geopolitica
Nel contesto delineato, il business travel si colloca dentro una fase di trasformazione ampia, in cui decisioni economiche, industriali e politiche tendono a sovrapporsi con frequenza crescente. La mobilità aziendale diventa uno strumento attraverso cui osservare e interpretare la ridefinizione delle relazioni internazionali: gli spostamenti dei manager seguono la riallocazione delle filiere, l’emergere di nuovi poli industriali, la necessità di presidiare mercati che si muovono in direzioni più autonome rispetto al passato. Le imprese europee si trovano a operare in uno scenario in cui Stati Uniti, Cina e attori regionali modellano norme, dazi, tecnologie e standard con logiche maggiormente competitive. Questo quadro richiede scelte di viaggio più consapevoli, pianificazioni più articolate e una valutazione continua dei fattori di rischio e di opportunità.
Il business travel assume così un ruolo sempre più strategico per comprendere la geografia economica in evoluzione, instaurare relazioni affidabili, monitorare la solidità dei partner e adattare le proprie strategie a una realtà globale in rapido movimento. La mobilità professionale, osservata da questa prospettiva, diventa parte integrante della capacità delle organizzazioni di leggere il cambiamento e di orientarsi in un mondo caratterizzato da dinamiche più diversificate e meno omogenee rispetto al ciclo precedente.










