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ToggleCome costruire un piano di crisi efficace per i viaggi aziendali: dai rischi più gravi alle soluzioni pratiche, la guida essenziale per ogni travel manager.
Quando si parla di gestione delle crisi in ambito travel, la domanda vera non è “se” succederà qualcosa, ma “quando”. E soprattutto: quanto saremo pronti a reagire? Bisogna sapere dove guardare prima nell’ottica di un piano di crisi, sapere cosa affrontare subito e cosa può aspettare. È qui che entra in gioco il concetto di prioritizzazione del rischio: un lavoro meno teorico di quanto sembri, e molto più utile di quanto si pensi.
Un buon piano di crisi non nasce tutto insieme: si costruisce a strati, proprio come una mappa di viaggio. Raccogliere le migliori pratiche di Travel Risk Management è quindi una procedura prioritaria. E tutto inizia con una domanda semplice, ma decisiva: quali sono i rischi reali per i miei dipendenti in trasferta?
Il primo passo è identificare i rischi
Prima ancora di sedersi a tavolino con un piano d’emergenza in mente, bisogna fare un bagno nella realtà. Perché ogni azienda ha un suo profilo di rischio, e ogni organizzazione vive un equilibrio differente tra operatività, persone e territori.
Per chi si occupa di business travel, l’identificazione dei rischi significa mappare tutto ciò che può andare storto prima, durante e dopo una trasferta. E non vale fermarsi agli scenari catastrofici da film: servono i dettagli concreti, i rischi piccoli che si sommano.
Prova a farti queste domande: ci sono dipendenti che viaggiano spesso in aree instabili? Quali sono i punti deboli dei nostri itinerari (aeroporti congestionati, connessioni strette, tratte ad alto rischio meteo)? I fornitori locali sono affidabili e tracciabili? Abbiamo mai avuto situazioni critiche legate alla salute, alla sicurezza, alla logistica?
L’identificazione dei rischi può nascere anche da un semplice debriefing post-trasferta: se un dipendente ha avuto un disservizio, un imprevisto o semplicemente ha percepito un clima di tensione in una certa città, questo è già un segnale da annotare.
Utile anche creare una mappa interattiva dei viaggi aziendali, in cui inserire, per ogni zona, i potenziali fattori critici: infrastrutture deboli, rischio criminalità, barriere linguistiche, problemi sanitari, mancanza di rappresentanze consolari.
Non tutti i rischi sono uguali
Una volta creato il “catalogo dei rischi”, viene il momento di dare priorità e peso a ciascuno di essi. È qui che un rischio smette di essere un titolo generico e comincia a diventare qualcosa di gestibile.
Il trucco sta nel combinare due parametri chiave: la probabilità che quel rischio si verifichi e l’impatto che avrebbe se accadesse. Una pioggia torrenziale a Roma a novembre? Probabile, ma con impatto medio. Un attentato a Bangkok? Bassa probabilità, impatto altissimo. Una cancellazione di volo da Bergamo a Londra il lunedì mattina? Altissima probabilità, impatto concreto se non si ha un piano B.
Una strategia efficace è costruire una matrice del rischio, un quadrante visivo in cui ogni scenario viene posizionato in base a queste due dimensioni. In alto a destra troverai i rischi rossi: quelli urgenti, quelli da pianificare subito. In basso a sinistra, quelli verdi, che meritano attenzione ma non sono prioritari.
Attenzione però a non lasciarti ingannare: anche i rischi a bassa probabilità vanno considerati, soprattutto se il loro impatto è sistemico (interruzione della supply chain, perdita di dati, incidenti con risvolti mediatici). L’obiettivo non è spaventarsi, ma essere lucidi: capire dove vale la pena agire subito, dove serve monitoraggio costante e dove basta una misura di contenimento.
Ad ogni rischio la sua strategia
Dopo aver stabilito quali sono i rischi critici, la fase più delicata è scegliere che fare. La gestione del rischio non è un esercizio teorico: è un piano di azione. E richiede decisioni pratiche, immediate, chiare. Inoltre, non è un aspetto che riguarda esclusivamente le multinazionali: anche le PMI devono avere un Travel Risk Management.
Per alcuni rischi, la strategia migliore sarà quella preventiva: evitare del tutto certe situazioni, come non inviare dipendenti in aree segnalate come instabili dal Ministero degli Esteri. In altri casi, meglio agire con strategie di mitigazione, ad esempio dotare i viaggiatori di dispositivi di localizzazione, training sulla sicurezza o supporto sanitario h24.
C’è poi la possibilità di trasferire il rischio: stipulare assicurazioni, delegare a fornitori certificati la logistica o il supporto in loco, affidarsi a piattaforme di travel risk intelligence che avvisano in tempo reale su ciò che accade nel mondo.
Infine, in certi contesti, l’unica soluzione sensata è accettare il rischio residuo e agire con prontezza se e quando si verifica. È qui che la preparazione interna fa la differenza: sapere chi chiamare, come contattare un dipendente, quali decisioni può prendere in autonomia, che protocolli attivare, quali numeri avere a portata di mano. Un rischio “trattato” non è un rischio annullato. Ma è un rischio che non ti coglie impreparato. E per chi si occupa di mobilità, questa è spesso la differenza tra gestione e panico.
Il piano di rischio va rivisto, aggiornato e testato
Immagina un piano di crisi scritto cinque anni fa, pre-Covid, pre-intelligenza artificiale, pre-guerra in Ucraina. Funzionerebbe oggi? Probabilmente no. Perché il mondo cambia, e con lui cambiano i rischi, le risorse e le soluzioni.
Un piano di gestione del rischio non può essere statico. Deve evolvere, crescere, adattarsi. La revisione va programmata. Almeno una volta all’anno – meglio se ogni sei mesi – il travel manager dovrebbe sedersi con i referenti aziendali e rivedere l’intero piano: cosa ha funzionato, cosa è cambiato, quali nuovi rischi sono emersi, quali sono stati i feedback dei viaggiatori? I viaggiatori aziendali sono spesso i migliori sensori: ti raccontano quello che le mappe non dicono, ti fanno notare anomalie che nessun algoritmo intercetta. Costruire un canale per raccogliere queste informazioni – anche informale – è fondamentale.
Un buon esercizio? Fare delle simulazioni. Dedicare alcune giornate alla simulazione delle emergenze reali: volo cancellato, dipendente irraggiungibile, scontri civili nella città ospitante. Chi fa cosa? Quanto tempo serve per reagire? Dove si inceppa la macchina?
Non solo sicurezza, ma cultura del rischio
Chiudiamo con una verità che fa la differenza: la gestione del rischio non è un documento, ma una mentalità. Un modo di ragionare, di pianificare, di reagire. E questa mentalità deve entrare nella cultura aziendale, diventare parte del DNA operativo. La formazione dei viaggiatori interni è un asset che un trave manager non può rimandare.
Per un travel manager, questo vuol dire essere molto più che un organizzatore di viaggi. E, ben inteso, preparare le persone al viaggio non significa solo metterli al corrente di biglietti e hotel, ma anche fornire loro consapevolezza e strumenti per essere il più possibile autonomi. Ad esempio, dei corsi di lingue in vista di una trasferta internazionale è importante. Significa creare briefing prima della partenza, dotare i dipendenti di linee guida chiare, trasmettere l’idea che la sicurezza è un lavoro di squadra.
Ma significa anche far salire di livello la conversazione in azienda. Parlare di gestione del rischio non solo con chi parte, ma con chi approva i viaggi, con chi gestisce HR, con chi si occupa di compliance e sostenibilità. Il rischio non riguarda solo la sicurezza personale, ma anche la reputazione, la legalità, la resilienza finanziaria.
Photo credit: Kevin Ku