C’è un tipo di mobilità che attraversa ogni giorno confini, città, continenti. Una mobilità che muove capitali, idee, innovazione. Eppure, raramente entra nel dibattito sulla sostenibilità. È quella dei viaggi d’affari. Ed è proprio da qui che ho voluto partire durante il mio intervento all’evento RETHINK MOB, a Pescara, con una provocazione nel titolo: “Viaggi d’affari: una mobilità strategica fuori fuoco”.
Perché fuori fuoco? Perché parliamo di un settore che nel 2024 ha generato una spesa globale di 1,48 trilioni di dollari, ma che non trova spazio nella contabilità climatica delle imprese. Un comparto ad altissimo impatto – ambientale, sociale, economico – che però resta ai margini delle strategie ESG. Invisibile. E dunque ingestibile.
Durante la mia presentazione, ho voluto chiarire che il business travel è un elemento cruciale per costruire relazioni internazionali, consolidare partnership, aprire nuovi mercati. Ma non possiamo più permetterci di vederlo soltanto come una voce di costo o una routine organizzativa.
La crisi climatica, con l’urgenza di ridurre le emissioni globali di 30 gigatonnellate all’anno entro il 2030, ci impone un cambio di passo. Serve una nuova visione per una mobilità d’affari capace di generare valore anche sul piano ambientale e sociale, oltre che economico.
Sommario
ToggleIl paradosso della misurabilità
E qui sta il nodo: non possiamo migliorare ciò che non sappiamo misurare. Oggi, il business travel è una “zona grigia” nella rendicontazione. I dati sono sparsi tra agenzie, piattaforme, sistemi aziendali. Mancano metriche condivise, manca interoperabilità. E soprattutto manca volontà, in molti casi, di affrontare seriamente il tema.
Nel mio intervento ho mostrato come questa frammentazione sia il vero ostacolo alla transizione. Abbiamo bisogno di standard aperti, di dashboard integrate, di una governance multilivello che coinvolga imprese, fornitori, policy maker e attori tecnologici. La tecnologia sembra non mancare… ma forse manca il disegno comune.
Business travel e carbon accounting: il vuoto sistemico degli Scope
Nel quadro della rendicontazione climatica, i viaggi d’affari ricadono quasi esclusivamente nello Scope 3, ovvero tra le emissioni indirette generate lungo la catena del valore dell’impresa. È lo scope più vasto, meno controllabile e, di fatto, meno tracciato. Ed è proprio qui che si annida la principale criticità.
Mentre le aziende hanno progressivamente affinato la misurazione degli Scope 1 (emissioni dirette) e 2 (emissioni indirette da energia acquistata), l’ambito dello Scope 3 resta in larga parte escluso dalla rendicontazione effettiva. Questo nonostante, in molti casi, rappresenti oltre il 70% dell’impronta carbonica complessiva.
All’interno dello Scope 3, il business travel occupa una posizione ambigua: rilevante dal punto di vista dell’impatto, ma spesso ignorata per la difficoltà tecnica di raccogliere dati coerenti e validabili. La responsabilità è condivisa. Le aziende raramente dispongono di sistemi interni progettati per raccogliere dati granulari sulle trasferte. I fornitori – compagnie aeree, hotel, agenzie, TMC – operano con metriche spesso non omogenee, e spesso non sono tenuti a fornire emission factor né rendicontazioni certificate.
Inoltre, la catena di approvvigionamento del business travel è per sua natura multilivello e frammentata. Si passa da portali di prenotazione a interfacce corporate, da policy di viaggio non vincolanti a note spese destrutturate. Questo genera una dispersione informativa che rende quasi impossibile la riconciliazione tra emissioni reali e budget previsionali, aggravata dalla mancanza di standard condivisi.
Il risultato è un vuoto contabile: le emissioni legate alla mobilità d’affari esistono, ma non entrano nei bilanci ambientali in modo sistemico. Non vengono misurate correttamente, né tantomeno gestite. Questo non solo compromette l’accuratezza delle strategie climatiche, ma espone le aziende a un rischio crescente di disallineamento rispetto agli standard di trasparenza richiesti da regolatori, investitori e stakeholder.
Inoltre, le strutture ricettive, nonostante costituiscano una componente strutturale dei viaggi d’affari, sono tuttora escluse in modo sistematico dalle metriche dello Scope 3 – categoria business travel. L’assenza di dati certificati sulle emissioni legate ai pernottamenti, unita alla mancanza di obblighi di rendicontazione da parte degli hotel, rende questa voce del tutto opaca sotto il profilo ambientale, pur avendo un impatto non trascurabile.
Finché lo Scope 3 continuerà a essere trattato come un ambito “non presidiabile”, la sostenibilità aziendale resterà una narrazione incompleta. E il business travel continuerà a rappresentare un punto cieco in una mappa ambientale che dovrebbe invece essere trasparente, integrata e verificabile.
Proposte concrete per agire subito
Le soluzioni esistono. Alcune sono già tracciate all’interno del Position Paper di BT4Europe, alla cui redazione ho contribuito come membro del Sustainability Working Group. Insieme ad Angela Lille, responsabile del gruppo europeo e ad altri colleghi, abbiamo delineato un percorso trasformativo per rendere sostenibile il business travel. Un percorso che passa da:
- policy aziendali vincolanti,
- tecnologie evolute come carbon budget e TMS intelligenti,
- partnership trasparenti tra aziende e fornitori,
- KPI ambientali chiari e condivisi.
E, fondamentale, integrare il travel nella materiality analysis aziendale, affinché non sia più una funzione isolata, ma parte integrante della strategia sostenibile.
Materialità del business travel: un tema assente dai radar strategici
Nel lessico della sostenibilità d’impresa, l’analisi di materialità rappresenta lo strumento attraverso cui un’organizzazione identifica gli impatti, i rischi e le opportunità realmente rilevanti da presidiare. È il punto di contatto tra la strategia aziendale e le aspettative degli stakeholder, ed è anche ciò che definisce cosa debba – o meno – essere oggetto di rendicontazione ESG. Eppure, in questo processo, il business travel continua a occupare una posizione periferica, se non del tutto assente. Nonostante incida su variabili ambientali (emissioni nocive), sociali (salute, sicurezza e benessere dei dipendenti) e organizzative (efficienza operativa, qualità delle relazioni commerciali), difficilmente viene riconosciuto come tema materialmente rilevante.
Questa rimozione non è casuale, ma riflesso di una cultura aziendale che storicamente ha collocato la mobilità d’affari sul piano gestionale, anziché su quello strategico. Il risultato è che i viaggi per lavoro non entrano nei processi formali di valutazione degli impatti né vengono sottoposti a metriche di monitoraggio strutturato. Eppure, nella prospettiva della doppia materialità – finanziaria e d’impatto – introdotta dalla CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), il business travel soddisfa pienamente entrambi i criteri: comporta costi diretti e indiretti rilevanti, genera emissioni documentabili, influisce sulla reputazione ambientale e sull’employee experience.
Senza una corretta inclusione nella matrice di materialità, la mobilità d’impresa continuerà a essere gestita come una variabile esogena, difficilmente governabile e sostanzialmente invisibile nei documenti strategici.
Viaggiare meno? No, viaggiare meglio
Sostenibilità non significa negare il viaggio, ma trasformarlo. Ho portato esempi concreti: l’utilizzo di treni notturni di nuova generazione, le prenotazioni multimodali end-to-end, l’intelligenza artificiale per ottimizzare gli spostamenti, le dashboard ESG connesse ai sistemi finanziari e HR. Sono soluzioni già disponibili ma serve il coraggio di adottarle e metterle a disposizione. E serve anche il coinvolgimento degli attori che oggi gestiscono le chiavi del sistema. Agenzie di viaggio, piattaforme di prenotazione, TMC: hanno una responsabilità enorme e possono diventare abilitatori del cambiamento.
Affinché il business travel possa contribuire in modo tangibile alla traiettoria net-zero e alle metriche di sostenibilità, è necessario collocarlo dentro una logica di architettura. Servono piattaforme capaci di restituire visibilità lungo tutta la catena del valore, strumenti di misurazione che non si limitino al calcolo della CO₂, ma integrino parametri di efficienza, benessere, impatto organizzativo. E soprattutto, serve un cambio di cultura decisionale: riportare la mobilità d’affari nei luoghi in cui si definiscono le priorità di governance.
Il suo ruolo nel bilancio ambientale, sociale ed economico dell’impresa diventa così strutturale. Ma finché resterà privo di una cornice metodologica e di un disegno strategico, continuerà a produrre esternalità non gestite e valore non tracciato. La sfida mi sembra chiara, non ridurre la frequenza, ma qualificarne l’intenzionalità.