L’11 dicembre lo Spazio LINEAPELLE di Milano ha ospitato un evento che, fin dall’impostazione, ha scelto di collocarsi fuori dai formati consueti della promozione territoriale. Non una presentazione istituzionale, né un semplice lancio di prodotto, ma un racconto strutturato, pensato per parlare al mondo delle imprese, degli eventi e delle organizzazioni che oggi cercano esperienze capaci di generare valore relazionale, culturale e umano.

Dietro l’iniziativa c’è Jacopo Angri, che ha ideato e promosso l’evento come punto di convergenza tra comunicazione aziendale, turismo esperienziale e riflessione sul lavoro contemporaneo. L’obiettivo non era mostrare una destinazione, ma spiegare perché un territorio può diventare piattaforma strategica per la crescita delle persone e dei team. La protagonista è la Valle d’Aosta, regione di confine per definizione e per vocazione. Piccola per estensione, ma attraversata da una stratificazione storica che ne ha fatto nei secoli un crocevia di popoli, eserciti, culture e commerci.
“Una storia da brividi” è il titolo dell’evento ideato e organizzato da Liberty House Alps, con la concessione d’uso del marchio turistico della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Un progetto che mette insieme promozione del territorio e linguaggi dell’impresa, proponendo la Valle come nuova destinazione per eventi corporate, team building e percorsi di sviluppo organizzativo. Al centro dell’iniziativa, la campagna “Esperienze che uniscono, team building che fanno crescere”, raccontata attraverso tre video che alternano ironia e riflessione per mettere a fuoco un messaggio chiaro: la crescita dei gruppi passa dalle esperienze condivise, non solo dai processi. La Valle d’Aosta viene così presentata in una veste inedita, come ambiente ideale per aziende e professionisti che cercano contesti autentici in cui lavorare su relazione, fiducia e identità di squadra.
In questo quadro, la tavola rotonda “Oltre l’AI: il fattore umano nelle organizzazioni di domani” ha rappresentato il naturale punto di convergenza dell’evento: perché se la Valle d’Aosta viene proposta come luogo in cui rallentare, sperimentare e costruire relazioni autentiche, allora la domanda centrale non può che essere come le aziende, oggi, riescano davvero a integrare tecnologia, performance e benessere umano senza perdere senso, energia e identità.
La discussione parte da un paradosso che molte organizzazioni stanno già sperimentando: l’intelligenza artificiale comprime i tempi, aumenta la velocità di esecuzione e promette standard più alti di efficienza, ma nel frattempo alza il livello di pressione psicologica e intensifica le frizioni interne. È su questa linea di faglia – tra accelerazione tecnologica e tenuta umana -che si è sviluppata la tavola rotonda di cui vi diamo un puntuale resoconto.

Sommario
ToggleSamuel Lo Gioco: la nuova pressione invisibile e la “cultura dell’errore” che manca
Samuel Lo Gioco (Counselor – Positive Mindway, esperto di mindset, complessità e gestione dello stress) mette il tema subito sul piano psicologico e culturale, spostando l’attenzione dal “cosa fa l’AI” al “cosa produce nelle persone”. Il punto, nella sua lettura, è che l’Italia arriva a questa transizione con un deficit storico: la scarsa tolleranza dell’errore. Non è un dettaglio educativo, ma una fragilità sistemica perché in un ambiente ad alta innovazione l’errore è fisiologico, mentre in un contesto che lo stigmatizza diventa fonte di ansia, autocensura e immobilismo.
“Soprattutto in Italia siamo privi di cultura dell’errore… bisogna far capire ai giovani che si può anche fallire, che si può anche sbagliare e che se si sbaglia non è grave”, osserva, collegando questo tema a un impianto sociale che premia la prestazione perfetta e rende costoso esporsi. La conseguenza, nella sua prospettiva, è un aumento di stress non tanto “da carico”, quanto “da giudizio”: la paura di sbagliare prima ancora della complessità del compito.
Da qui la critica al benessere ridotto a pacchetto di welfare. Lo Gioco non nega l’utilità dei benefit, ma li considera insufficienti quando il problema è strutturale: non è la mancanza di servizi a far crollare le persone, quanto il modo in cui interpretano pressione, identità professionale e aspettative.
“La maggior parte dei programmi welfare sono utili, ma non sono efficaci per lavorare concretamente sul benessere”, dice, spiegando perché ha investito su un approccio più psicologico: “andare a lavorare sul modo in cui noi pensiamo”. È un punto chiave: se la transizione AI aumenta velocità e variabilità, la “competenza madre” diventa la capacità di regolare stress, attenzione e significato, non semplicemente accumulare strumenti.
Sul piano organizzativo, la prima trasformazione che indica è quasi banale e proprio per questo rara: ascolto. “La prima cosa necessaria è l’ascolto”, insiste, e lo lega a un bisogno crescente di valorizzazione, soprattutto tra i più giovani: “le persone vogliono sentirsi valorizzate… le nuove generazioni ancora di più”. La tavola rotonda, qui, produce un risultato netto: la leadership del futuro non è solo decisione, è anche regolazione emotiva e relazione.
Giorgio Bisi: lo stress è prima fisiologico, poi mentale. E l’allenamento cambia la performance
Giorgio Bisi (Istruttore KMA Krav Maga – consapevolezza corporea, sicurezza, gestione dello stress fisico e mentale) porta la discussione su un piano complementare, quasi “materiale”: lo stress non è un concetto astratto, è una reazione del corpo. E, proprio perché è misurabile e ripetibile, è allenabile. In un mondo del lavoro che spesso pretende lucidità costante, Bisi propone una lettura più realistica: la lucidità si costruisce, non si invoca.
“C’è un atteggiamento fisico provocato dallo stress: il battito cardiaco e la respirazione. Sono le due cose principali che avvengono ancora prima di dare un nome all’ansia”, spiega. Il punto, però, non è solo riconoscere i segnali; è accettare che l’evento critico è soggettivo: “un evento critico può essere fare una corsa per prendere il tram… oppure un capo che mi urla addosso. La reazione del fisico è identica”.
Da questa equivalenza discende una conseguenza organizzativa: molte aziende trattano lo stress come tema “psicologico”, quando in realtà spesso nasce come tema di disregolazione fisiologica quotidiana. Se non viene gestito presto, arriva tardi, quando ormai è conflitto, calo di performance o uscita silenziosa.
Bisi introduce poi il concetto di allenamento come tecnologia umana, non come sport estremo. Cita esempi limite per chiarire un punto semplice: esporsi in modo controllato allo stress rende più capaci di gestire lo stress non controllato. “La buona notizia è che si può ovviare… attraverso l’allenamento. Si allena tutto: il corpo e anche la mente”.
Quando gli viene chiesto se la consapevolezza corporea migliori la performance professionale, risponde senza ambiguità: “Assolutamente sì”. E spiega perché: “Quando sottoponi il corpo a uno stress superiore a quello medio, la mente si evolve necessariamente… ti costringe a confrontarti con lo sforzo e con l’impegno”. In termini economico-organizzativi, la sua tesi può essere tradotta così: la resilienza non è uno slogan, è una competenza adattiva che si costruisce con pratica, ripetizione e tecniche (come la respirazione) che aumentano la capacità di rimanere funzionali anche in pressione.
Simona Ciotti: il benessere non è uno slogan, si vede in retention e reputazione. Ma richiede purpose
Simona Ciotti (Giornalista – HR Link, esperta di organizzazioni e risorse umane) porta la discussione dentro il perimetro HR e, soprattutto, dentro il criterio che interessa davvero alle imprese: come distinguere il benessere “raccontato” dal benessere “agito”. Il suo punto di partenza è quasi una provocazione: misurare il benessere è come misurare la felicità, perché tende a sfuggire agli indicatori singoli e immediati.
“Un’indicazione… è un’azienda che si pone in modo caring”, spiega, e definisce cosa intende: “ascolto attivo” e “personalizzazione della risposta” su welfare, formazione e percorsi di carriera. L’elemento economico, qui, arriva subito dopo: questi fattori non producono un KPI secco nel breve, ma si vedono nel medio periodo nei comportamenti di mercato del lavoro.
“Se le persone sono contente lo vedi perché rimangono… lo vedi in termini di reputazione nel mercato del lavoro. Le persone consigliano l’azienda, consigliano i prodotti: c’è advocacy”, dice. In altre parole, il benessere organizzativo diventa un indicatore anticipatore di attrattività e produttività, più che un capitolo “HR”.
Quando il tema si sposta sulle competenze soft, Ciotti fa una scelta precisa: non indica una lista generica, ma una traiettoria. Il contesto di trasformazione – AI inclusa – impone alle aziende di diventare “learning organization”.
“L’azienda deve sviluppare la competenza di essere una learning organization… e a livello personale le persone devono fare la stessa cosa: apprendimento continuo”, afferma, legando questa idea a un mercato del lavoro in cui l’obsolescenza delle competenze è più rapida e meno negoziabile. E aggiunge due capacità che diventano decisive proprio perché l’AI rende più facile l’esecuzione individuale: lavoro di squadra e spirito critico. “Problem solving… frutto di un lavoro di equipe” e “uno spirito critico” che impedisca di appoggiarsi passivamente alle soluzioni “già pronte”.
Ma la parte più densa della sua analisi arriva sul tema del significato. Ciotti registra una “domanda di purpose” che non è più retorica generazionale, ma un criterio di scelta e permanenza. “C’è una grande ricerca di significato… le aziende devono spiegare il purpose: il perché dobbiamo fare qualcosa e perché lo stiamo facendo”. È un punto che sposta la tavola rotonda dalla psicologia individuale alla strategia: se la tecnologia accelera, il collante interno non può essere solo la produttività, deve essere una narrazione coerente tra obiettivi e identità.
Il punto di convergenza: ciò che l’AI non replica è allenamento, significato, relazione
La discussione si compatta in un passaggio collettivo: cosa può fare il fattore umano che nessuna AI può replicare? Qui le risposte, pur da angolature diverse, convergono su tre assi.
Il primo è la capacità di costruire senso e direzione. Non perché l’AI non possa generare testo o strategie, ma perché non può sostituire l’esperienza vissuta di appartenenza e motivazione. Il secondo è la relazione: ascolto, valorizzazione, leadership quotidiana. Il terzo è l’allenamento, inteso come capacità di attraversare fatica e frustrazione senza crollare, tema che Bisi e Lo Gioco leggono come antidoto alla fragilità da “perfezione”.
In questo spazio si inserisce anche la critica alla superficialità: l’AI rischia di rendere più comodo non impegnarsi. Giorgio Bisi lo dice in modo diretto: “Manca il valore dell’impegno… l’intelligenza artificiale potrebbe aumentare questa voglia di non impegnarsi”. E aggiunge una diagnosi che, in termini di organizzazione, somiglia a un campanello d’allarme: senza allenamento, l’apprendimento diventa più lento e più fragile, anche in persone molto istruite.
Il risultato finale: la trasformazione urgente è culturale, prima ancora che tecnologica

La tavola rotonda, al netto delle differenze, produce una conclusione piuttosto netta: la trasformazione più urgente per le aziende non è “adottare l’AI”, ma costruire le condizioni umane per reggerla. Questo significa mettere a terra ascolto e coerenza interna (purpose e comunicazione), smettere di trattare il benessere come accessorio, investire su apprendimento continuo e spirito critico, e riconoscere che lo stress è anche una questione fisiologica e va gestito prima che diventi costo organizzativo.
A riportare la discussione a una prospettiva sistemica è stata Rosemarie Caglia, CEO di Travel for business e moderatrice dell’incontro, che ha sottolineato come il tema del fattore umano non possa più essere separato dalle scelte organizzative più concrete, a partire da quelle che incidono sulla quotidianità del lavoro.
“Parliamo di benessere come se fosse un concetto astratto, ma in realtà si misura nelle decisioni operative: nei tempi, nei ritmi, negli spostamenti, nella qualità dell’esperienza che un’azienda costruisce per le proprie persone”, ha osservato. “Se non integriamo il fattore umano nei processi – dalla tecnologia alle travel policy, dall’organizzazione del lavoro agli eventi aziendali -rischiamo di accelerare sistemi che le persone non riescono più a sostenere”.










