Quando il lavoro viaggia: il bleisure come metafora del cambiamento organizzativo

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In apparenza si parla di viaggi. Di business travel, di valigie e biglietti, di hotel e voli low-cost. Ma sotto la superficie, il vero argomento è un altro. Perché oggi, il modo in cui si viaggia per lavoro è diventato una lente potente per osservare — e ripensare — il rapporto tra le persone e le organizzazioni.

Il cosiddetto “bleisure”, la fusione tra business e leisure, è solo la punta dell’iceberg. Un fenomeno in crescita, certo, ma anche una metafora concreta: ci racconta di come il lavoro stia uscendo dai suoi confini tradizionali. Ci dice che la separazione tra tempo produttivo e tempo personale non regge più. E ci suggerisce che le persone non funzionano più (ammesso che abbiano mai funzionato) solo per compiti, processi e KPI.

In trasferta, lontani dalle routine e dai riferimenti abituali, i lavoratori si scoprono più esposti, più vulnerabili, ma anche più autentici. Cadono le maschere operative, e affiorano gli equilibri reali: lo stress, l’energia, il senso di appartenenza. Si aprono spazi di consapevolezza — e anche di fragilità — che spesso nella vita d’ufficio vengono compressi, ignorati, rimossi.

Le persone non sono mansioni: sono stati d’animo

Ed è proprio qui che il bleisure si trasforma da tendenza manageriale in spunto esistenziale. Perché mostra con chiarezza che le persone non vivono il lavoro come una sequenza di mansioni, ma come una condizione emotiva. E che ogni contesto “fuori norma” (come una trasferta, un cambiamento, una crisi) rivela la verità: ciò che muove l’azione non è il compito, ma il senso. Tutto questo ci obbliga a un cambio di sguardo. Se vogliamo costruire organizzazioni capaci di affrontare il presente, non possiamo più limitarci a ingegnerizzare processi. Dobbiamo iniziare a progettare relazioni. Dobbiamo cominciare a parlare di cura, fiducia, presenza. E non solo nei momenti ufficiali, ma proprio in quelli di transizione: le pause, le attese, i margini.

Il lavoro — come il viaggio — è sempre più spesso uno spazio-limite. Un non-luogo in cui le vecchie certezze non bastano e le nuove faticano a emergere. In questi spazi, le persone hanno bisogno non solo di indicazioni, ma di significato. E le organizzazioni, se vogliono essere sostenibili (non solo ecologicamente, ma anche umanamente), devono diventare luoghi capaci di contenere la complessità delle emozioni.

Non si gestiscono persone. Si accompagnano

Quando mi guardo intorno, vedo sempre più chiaramente che la leadership si gioca nella qualità della presenza. Nei silenzi condivisi, nelle cose che non servono spiegare, nella sensibilità con cui si sta accanto a chi attraversa momenti incerti. Ci si muove insieme, si cambia passo quando serve, si accetta che non tutto segue una direzione lineare.

E anche la formazione, se ci penso, non è più questione di contenuti. È una questione di contesto. Di creare condizioni perché le persone possano rivedersi, riprendersi, riconoscersi.
In quei momenti si percepisce con chiarezza che le persone non sono ruoli da riempire, ma esperienze complesse da attraversare. Portano con sé storie, domande, tensioni che nessuna descrizione di mansione può contenere.

Chi guida, chi forma, chi gestisce — se è attento — può cogliere tutto questo. E può scegliere di non intervenire con soluzioni immediate, ma di proteggere quello spazio, renderlo abitabile. Le organizzazioni che crescono sono quelle che sanno reggere anche ciò che non è immediatamente produttivo. Che sanno ascoltare una vulnerabilità senza trasformarla subito in strategia. Che sanno restare presenti, anche quando le coordinate saltano.

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