Mobilità pubblica e sharing: perché (ancora) non è una scelta per tutti

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Sharing e TPL sono spesso poco accessibili a chi vive in periferia: la mobilità sostenibile rischia di diventare una questione di élite

Siamo abituati a parlare di transizione ecologica, di Piani di Spostamento Casa-Lavoro, di abbonamenti integrati, flotte aziendali ibride e piattaforme di car sharing. Ma la verità è che la mobilità sostenibile, oggi, è ancora un lusso per pochi. Chi vive in periferia — e spesso ha anche un reddito più basso — non può permettersi di “scegliere” tra auto, metro o bici elettrica. Spesso l’unica scelta è… l’auto vecchia, quella che consuma troppo, ma è l’unica che ti porta al lavoro alle 7 del mattino.

Se sei un mobility manager o un decisore aziendale, prova a guardare i tuoi numeri in modo diverso: quanti dei tuoi dipendenti arrivano in auto perché non hanno alternative? Quanti abitano in zone dove il TPL non arriva, o dove lo sharing è solo sulla mappa? Le tue politiche incentivano chi ha bisogno o chi ha già strumenti?

Dove non arriva il TPL, arriva (forse) il traffico

Molti Comuni spingono verso la riduzione dell’uso dell’auto privata, ma non tutti i cittadini sono messi nella condizione reale di poterla lasciare a casa. Le zone periferiche o extraurbane, per esempio, sono spesso completamente tagliate fuori da qualsiasi servizio efficiente. I bus passano raramente, a volte anche ogni ora; le stazioni ferroviarie non sono raggiungibili né a piedi né in bici; le piste ciclabili, quando ci sono, iniziano e finiscono nel nulla, senza una reale funzione di connessione. Spesso i parcheggi di scambio sono pochi e mal distribuiti.

Anche i servizi di sharing, quando esistono, coprono solo il centro e i quartieri più strategici. Risultato? L’auto privata diventa non una comodità, ma un obbligo quotidiano, con tutti i costi che comporta. E chi ha meno risorse economiche finisce col pagarne il prezzo più alto, non solo in termini finanziari, ma anche in termini di tempo perso, stress e impatto ambientale.

Sharing Mobility: bella, ma per chi?

La sharing mobility ha sicuramente rivoluzionato il modo in cui ci muoviamo nelle città. Ma se la guardiamo con occhi più critici, ci accorgiamo che è stata pensata per chi vive nei centri urbani. Nei quartieri centrali ci sono rastrelliere, zone servite, corsie preferenziali, hub dedicati. Anche le app funzionano bene, con copertura capillare e opzioni flessibili.

Tutt’altro scenario per chi vive a 10 o 15 km di distanza dal centro: lì, la condivisione è pura teoria. E anche quando il servizio è disponibile, spesso l’accesso è frenato da costi iniziali non trascurabili — dalle iscrizioni alle cauzioni, fino a tariffe al minuto che, per un lavoratore precario o part-time, non sono affatto sostenibili. Così, la mobilità condivisa rischia di diventare una comodità per chi già ha opzioni. Per questo motivo le aziende dovrebbero sempre più spingere verso l’inaugurazione di iniziative di car pooling nelle periferie per i propri dipendenti.

Le aziende possono fare la differenza

Ed è proprio in questo contesto che le aziende possono e devono giocare un ruolo strategico. Un buon piano di mobility management aziendale può diventare uno strumento concreto di giustizia sociale. Alcune scelte sono già alla portata: per esempio, offrire abbonamenti personalizzati ai mezzi pubblici, che siano davvero calibrati sulle reali tratte dei lavoratori, e non pensati solo per chi parte dal centro città.

Un’altra azione efficace può essere l’introduzione di navette aziendali, soprattutto nelle sedi produttive lontane dai nodi del trasporto pubblico. Anche il rimborso chilometrico può essere ripensato: non deve premiare solo chi ha l’auto elettrica nuova, ma anche chi non ha alternative e affronta lunghi spostamenti ogni giorno.

Infine, le imprese possono promuovere microhub di sharing in prossimità degli stabilimenti o nei parcheggi aziendali, rendendo accessibile la mobilità condivisa anche a chi non vive in zone centrali o ben serviteLe soluzioni esistono, ma vanno progettate per includere, non per premiare sempre gli stessi.

Democratizzare la mobilità per rendere giusta la transizione ecologica

Una mobilità può davvero dirsi sostenibile solo se è anche equa. Se nella corsa verso la transizione ecologica lasciamo indietro chi non ha alternative all’auto privata, non stiamo costruendo un futuro migliore: stiamo solo ridecorando un sistema già sbilanciato.

Incentivare chi può già permettersi monopattini o abbonamenti premium è facile. La vera sfida è offrire opzioni concrete e dignitose anche a chi oggi non ha nemmeno il diritto di scegliere. Perché se l’unica strada verso la sostenibilità passa per l’esclusione, allora non stiamo parlando di progresso, ma di privilegio.

Photo credit: Ensar*

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